Armi da tiro news da Armi e Tiro
Dazi Usa: quale rischio per le aziende del comparto?
Il Consorzio degli armaioli italiani sta seguendo da vicino l’evoluzione della questione dei dazi annunciati dal presidente statunitense Donald Trump sui prodotti di importazione. Riceviamo e pubblichiamo questa riflessione da parte del Conarmi:
“In un celebre film con Troisi e Benigni il doganiere pretendeva una “gabella” per ogni passaggio, anche di pochi metri, senza spiegazioni e senza possibilità di replica. Un paradosso surreale, ma almeno faceva sorridere. Oggi, purtroppo, siamo di fronte a una situazione simile, ma che, di comico, non ha nulla. Stiamo parlando dei dazi imposti dagli Stati Uniti: misure che, per modalità e criteri, stanno generando confusione e incertezza. Nessuno riesce davvero a comprendere su quali basi siano stati costruiti. L’esempio dell’Europa è emblematico: l’inserimento della Tva (la nostra Iva) nei calcoli lascia perplessi. È frutto della scarsa conoscenza del sistema fiscale europeo o è semplicemente un errore retorico? In ogni caso, i risultati sono incertezza, incomprensione e disorientamento.
Il dazio, in fondo, è una tassa pensata per tutelare una produzione nazionale, quando si ritiene che l’importazione crei eccessiva concorrenza, dovuta a prezzi e costi di produzione inferiori, non necessariamente a una qualità superiore. Questo squilibrio è figlio della globalizzazione, che ha spostato negli anni tante produzioni verso Paesi a basso reddito, più competitivi. È successo anche in Italia: basti pensare a Lumezzane, un distretto bresciano un tempo centrale per la produzione di casalinghi, che ha visto buona parte della manifattura spostarsi in Cina. Eppure, grazie a investimenti in tecnologia e qualità, molte aziende sono riuscite a rientrare nel circuito competitivo globale. E gli Stati Uniti? Chi ha avuto modo di vivere o lavorare negli Usa — non da semplice turista — saprà che il sistema produttivo statunitense è spaccato in due: da un lato alta tecnologia, dall’altro quella bassa; in mezzo, ben poco. Le piccole e medie imprese, come le intendiamo noi, sono rare. Molte si sono trasformate in importatori di prodotti finiti o semilavorati, da assemblare. Anche nel nostro settore, la maggior parte dei produttori americani acquista componenti da Paesi come Cina, Turchia, Polonia, Cechia, Taiwan o Indonesia; ma nessuno li obbliga a farlo, come nessuno li obbliga ad acquistare i nostri fucili (che già pagano il 2-3% di dazio), vini, formaggi, scarpe o moda. Perché allora dovremmo sentirci in dovere di acquistare i loro prodotti?
Due esempi: fino a poco tempo fa le loro automobili erano così grandi da risultare inadatte alle nostre città, con consumi sproporzionati e ai loro prodotti alimentari preferiamo i nostri: abbiamo gusti diversi e regole altrettanto diverse. Viene da chiedersi se la vera “colpa” europea non sia quella di produrre un’estetica e una qualità che piacciono anche a loro, anche grazie a standard normativi (alimentari, ambientali, tecnici) che impongono un livello di sicurezza e responsabilità, ma che a qualcuno possono sembrare scomodi. La mediazione è l’unica via e la guerra commerciale deve essere l’ultima spiaggia. La politica — si spera — dovrà intervenire per cercare soluzioni. Anche se è probabile che le eventuali difese europee saranno generiche e non toccheranno nello specifico il nostro comparto. Una possibile linea d’azione potrebbe partire dalla formazione: spiegare chiaramente come funziona il nostro sistema fiscale, evidenziando che non esistono discriminazioni verso i prodotti americani o verso gli Stati Uniti.
Aprire stabilimenti negli Usa? Per molte realtà è un’ipotesi poco realistica: una fabbrica non è una pizzeria e le differenze culturali, organizzative e produttive tra Italia e Stati Uniti restano profonde. La mentalità lavorativa americana — spesso meno specializzata e con poca “loyalty” all’azienda — è ben diversa da quella delle nostre maestranze. Basta parlarne con chi ha provato l’avventura imprenditoriale Oltreoceano. Alcune imprese potrebbero valutare la creazione di società per la distribuzione o per l’assistenza post-vendita. Ma la produzione sul suolo americano resta, per molti, una scommessa rischiosa. A meno di modelli di business basati su semplici assemblaggi. Abbassare i prezzi per sopravvivere? Il vero effetto di questi dazi rischia di essere quello di spingere molte aziende europee ad abbassare i prezzi per restare sul mercato e così, paradossalmente, a sostenere le entrate fiscali americane. E allora, che fare? La risposta è semplice, ma impegnativa: puntare ancora più in alto in termini di qualità, investire in tecnologia per ridurre i tempi e migliorare la produttività; controllare i costi, potenziare la comunicazione per trasmettere che il prodotto italiano, in particolare quello armiero, è superiore per durata, estetica, progettualità e sicurezza. Serve una strategia condivisa, un progetto che coinvolga non solo i produttori valtrumplini, ma l’intero sistema Italia, con il sostegno dell’Unione europea. Un’Europa che dovrà impegnarsi a ridurre drasticamente le zavorre burocratiche e logistiche. Occorre valorizzare, in modo deciso, strumenti di garanzia come le verifiche forzate del Banco di Prova, che rappresentano un punto di eccellenza assoluto, che i concorrenti non hanno. Un tratto distintivo, insieme alle qualità tecniche e stilistiche che da sempre caratterizzano la nostra produzione. Nell’immediato non possiamo fare altro che restare vigili, compatti e determinati. E, citando quel film…”Non ci resta che piangere”, sperando che presto si possa almeno smettere di farlo”.
L’articolo Dazi Usa: quale rischio per le aziende del comparto? proviene da Armi e Tiro.
Fonte: armietiro
Leggi tutto l’articolo sul sito “Armi e tiro”: Dazi Usa: quale rischio per le aziende del comparto?